L’immigrazione

S. Bigini, L. Guida, U. Rachdy


WE REFUGEES  (B. Zephaniah)

I come from a musical place

Where they shoot me for my song

And my brother has been tortured

By my brother in my land.

I come from a beautiful place

Where they hate my shade of skin

They don’t like the way I pray

And they ban free poetry.

I come from a beautiful place

Where girls cannot go to school

There you are told what to believe

And even young boys must grow beards.

I come from a great old forest

I think it is now a field

And the people I once knew

Are not there now.

We can all be refugees

Nobody is safe,

All it takes is a mad leader

Or no rain to bring forth food,

We can all be refugees

We can all be told to go,

We can be hated by someone

For being someone.

come from a beautiful place

Where the valley floods each year

And each year the hurricane tells us

That we must keep moving on.

I come from an ancient place

All my family were born there

And I would like to go there

But I really want to live.

I come from a sunny, sandy place

Where tourists go to darken skin

And dealers like to sell guns there

I just can’t tell you what’s the price.

I am told I have no country now

I am told I am a lie

I am told that modern history books

May forget my name.

We can all be refugees

Sometimes it only takes a day,

Sometimes it only takes a handshake

Or a paper that is signed.

We all came from refugees

Nobody simply just appeared,

Nobody’s here without a struggle,

And why should we live in fear

Of the weather or the troubles?

We all came here from somewhere.

 

 

Vengo da un luogo musicale

Dove mi sparano per la mia canzone

E mio fratello è stato torturato

da mio fratello nella mia terra

Vengo da un luogo meraviglioso

Dove odiano il colore della mia pelle

Non amano il modo in cui prego

E censurano la poesia libera

Vengo da un luogo meraviglioso

Dove le ragazze non possono andare a scuola

Lì ti viene detto in cosa credere

E anche i giovani ragazzi devono farsi crescere la barba

Vengo da una grande e vecchia foresta

Penso che adesso sia un campo

E le persone che una volta conoscevo

Non sono lì ora

Noi tutti possiamo essere rifugiati

Nessuno è salvo,

Tutto ciò che serve è un leader folle

O di nessuna pioggia che ci porti via il cibo

Noi tutti possiamo essere rifugiati

A tutti noi può essere detto di partire

Noi possiamo essere odiati da qualcuno

Per essere qualcuno

Io vengo da un luogo meraviglioso

Dove la valle è inondata ogni anno

E ogni anno la tempesta ci dice che

dobbiamo continuare a muoverci

Io vengo da un antico luogo

Tutta la mia famiglia è nata lá

E a me piacerebbe andarci

Ma io voglio veramente vivere

Vengo da un posto soleggiato, sabbioso

Dove i turisti vanno per abbronzare la pelle

E dove ai rivenditori piace trafficare pistole 

Non posso proprio dirti quale sia il prezzo.

Mi viene detto che ora non ho un Paese

Mi viene detto che sono una bugia

Mi viene detto che i libri di storia moderna

Potrebbero dimenticare il mio nome.

Possiamo tutti essere rifugiati 

A volte basta un giorno,

A volte una stretta di mano

O un documento firmato.

Veniamo tutti dai rifugiati

Nessuno è semplicemente apparso,

Nessuno è qui senza uno sforzo,

E perché dovremmo vivere nella paura

Del tempo o dei problemi?

Tutti veniamo da qualche parte.

 


La poesia tratta di un forte sentimento razzista che ha preso piede in un luogo in cui gli uomini vengono torturati, le donne non possono andare a scuola e in cui il governo obbliga tutti a seguire la medesima ideologia. Un luogo in cui ogni anno le condizioni della popolazione peggiorano a causa di catastrofi naturali e da cui moltissimi sono costretti a scappare, diventando rifugiati in altri paesi. L’idea dell’autore, espressa specialmente nelle ultime strofe, è che ogni uomo potrebbe essere un rifugiato, e ogni rifugiato è un individuo che ha alle spalle una storia tragica, una famiglia, una casa e un Paese che ha dovuto abbandonare.

 



Gli emigranti

A. Tommasi, “Gli emigranti”, olio su tela, 1895, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma
A. Tommasi, “Gli emigranti”, olio su tela, 1895, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma

 

Biografia dell’autore

Livorno, 25 giugno 1858 – Torre del Lago Puccini, 15 ottobre 1923

Tommasi è un pittore naturalista della seconda generazione Macchiaiola, fortemente influenzata dal realismo di Gustave Courbet. Collaborò alla diffusione del nuovo modo di dipingere, usando macchie di colore e forme dal contorno poco definito.

 

Descrizione dell’opera

La scena raffigurata dall'artista è ambientata nel porto di Livorno, dove intere famiglie attendono di potersi imbarcare e attraversare il mare in cerca di una vita migliore. L’opera è ambientata negli anni successivi all'unità di Italia, periodo in cui le difficoltà economiche e sociali spinsero moltissimi italiani a lasciare il proprio Paese. Le condizioni dei viaggiatori erano molto disagiate, se non disumane. Siamo dinanzi a una scena comune per quel periodo, che Tommasi ha rappresentato su una tela di grandi dimensioni, generalmente riservata alla celebrazione di scene monumentali, che sottolinea l'importanza del fenomeno. Su di essa aleggia un tempo sospeso tra rassegnazione e speranza, dove l'ipotesi ed il sogno di una sorte differente, simboleggiata dalle navi all'orizzonte, si mescolano al rimpianto dell'abbandono della propria terra. Lo spazio è invaso da gente umile e anonima in cerca di fortuna: contadine, commercianti e artigiani che tentano un breve e malconcio riposo.

 

Sono le figure femminili ad interpretare i sentimenti di dolore e di speranza: la contadina che si sorregge il volto con la mano e lo sguardo proteso verso il nulla, assorta nel pensiero di ciò che sta per abbandonare. La bambina con il fazzoletto rosso è vicina a una famiglia che ipotizza con la sua presenza il tempo della rinascita. Due donne, una raffigurata durante l'allattamento, l'altra incinta con le mani sul grembo che predispongono alla speranza. Tutti sembrano in attesa di una nave che tarda ad arrivare. Il distacco e la separazione dagli affetti e dai luoghi restituisce la malinconia e la rassegnazione degli emigranti di questo affresco collettivo.

 

Nell'opera di Gambogi (sotto), sebbene si ispiri al quadro di Tommasi, l’artista preferisce raffigurare meno personaggi, facendo spiccare in particolar modo una famiglia, colta nella sua intimità, in attesa del lungo viaggio che hanno deciso di affrontare e dagli esiti incerti.

 

R. Gambogi, “Gli emigranti”, olio su tela, 1895, Museo civico Giovanni Fattori, Livorno
R. Gambogi, “Gli emigranti”, olio su tela, 1895, Museo civico Giovanni Fattori, Livorno

Biografia dell’autore

Livorno, 1874 – 1943

Nel 1892 si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui anni più tardi divenne professore onorario, ed entrò in contatto con Giovanni Fattori. La personalità artistica che più lo influenzò fu però Angiolo Tommasi e quando creò il suo quadro probabilmente più conosciuto - Gli emigranti - chiara è l'impronta e l'insegnamento di questo pittore.

 

Descrizione dell’opera

L'emigrazione verso paesi stranieri, dove di spera di trovare lavoro, diventa un problema sociale importante in Italia, alla fine dell'Ottocento. Famiglie intere si muovono dalla campagna verso città portuali, da dove ci si imbarca per lontani Paesi. Una di queste città portuali è Livorno, che spesso Gambogi visita, partendo da Torre del Lago, dove abita. Al porto di Livorno si affollano gli emigranti, con le loro povere cose dentro sacche, ceste e zaini. Sono i nuovi poveri, che lasciano la loro terra, con la speranza di un domani migliore. La pittura realistica di Gambogi coglie l'emergere di un problema sociale e umano, ma si muove all'interno di una tradizione di schemi formali: non denuncia, non cerca rimedi, ma si limita al solo racconto.

 

Raffaello Gambogi accenna appena ai volti, più attento è invece agli atteggiamenti - il padre che bacia la bambina, la madre che si asciuga le lacrime con un grande fazzoletto rosso, l'altra bimba che tende le braccia. Sullo sfondo sono ancorate, scure e avvolte dal fumo, le navi alla fonda, con gli alberi ancora privi di vele. Sull'acqua del mare, vitrea e sporca, si riflette un cielo algido, privo di ogni riferimento temporale. Le ombre delle figure sono rivolte verso chi guarda il dipinto, perché da quel mare viene una qualche luminosità: mare che sta fra la banchina, dove gli emigranti sostano in attesa, e quelle navi, scure e lontane, che rappresentano una speranza, ma anche l'ignoto e la dolorosa separazione. Nei riflessi scuri sull'acqua, nelle vesti delle donne e nella pavimentazione della banchina c'è un accenno di divisionismo: una tecnica che interrompe la continuità delle pennellate.

 

L’artista in Emigranti riproduce lo stesso soggetto di Tommasi, la partenza, in un momento identico, l’attesa dell’imbarco, ma rappresenta tutto ciò in modo diverso. La partenza è vissuta come distacco, solitudine, dolore, una vicenda personale e familiare. Una pittura quella del XIX secolo capace di dare voce alle miserie e alle contraddizioni del tempo. Un’arte che assume la responsabilità della denuncia e che stimola messaggi di solidarietà attraverso forme artistiche.

 


Indifferenza generale

Br1, “Indifferenza generale, murales, Torino
Br1, “Indifferenza generale, murales, Torino

BR1 è ricordato come lo street artist dell’effimero per eccellenza. E’ torinese, e qualche volta si è spinto fino a Roma, dove qualche tempo fa ha esposto alla Laszlo Biro, la galleria underground di via Braccio da Montone al Pigneto. Nelle città italiane ci ha lasciato opere incantevoli.

Il lavoro di Br1 è interessante dal punto di vista visivo e denso di riflessioni sui temi legati alla migrazione di popolazioni e all'interculturalismo. L’opera è un tributo alle tragedie che si susseguono nei nostri mari, intitolata “Indifferenza generale”. La tavola, prima dipinta in studio in acrilico su carta e poi incollata su un cartellone pubblicitario, è comparsa misteriosamente nella notte sui muri del piazzale tra via Piave e via Carlo Ignazio Giulio, a Torino. Raffigura un uomo di colore che sembra chiedere disperatamente aiuto ai passanti mentre annaspa nell'acqua del mare. Un chiaro riferimento al dramma dei tanti immigrati che perdono la vita nelle mani di scafisti senza scrupoli mentre su imbarcazioni di fortuna tentano di raggiungere le coste italiane: “Non c’è alcun intento provocatorio – dice l’artista – solo rappresentazione della realtà”. BR1 considera che sia importante, attraverso le sue opere, generare la riflessione nell'osservatore. Egli crede fermamente nella missione sociale dell’artista, sebbene sia faticoso trovarla in gran parte della street art odierna. Egli stesso afferma che sia avvenuto che le sue opere urtassero i limiti di tolleranza, tanto da essere censurate, determinando anche prese di posizione da parte di alcuni giornali locali.

 

In ogni angolo del mondo qualcuno interviene sui pannelli pubblicitari, che sono quasi sempre spazi privati delle aziende. Questo movimento prende il nome di “adbusting”. Le azioni sono sempre libere, autogestite e non autorizzate. Br1, infine, afferma: “La differenza tra me e un pubblicitario risiede nel fatto che il pubblicitario deve lavorare dentro i limiti che il suo committente aziendale stabilisce, anche a costo di creare messaggi finti, l’importante è vendere. Come si possono concepire pubblicità che sfruttano temi delicati come la fame nel mondo, la disperazione dei bambini, o le malattie, se tanto il fine è quello esclusivo di vendere un prodotto e continuare a sfruttare popolazioni e terre per la propria sete di profitto, oltre che per creare modelli di vita deprecabili?

 


Les voyageurs

B. Catalano, ”Les voyageurs”, cera persa, Marsiglia, Francia
B. Catalano, ”Les voyageurs”, cera persa, Marsiglia, Francia

“Les Voyageurs” sono i gruppi scultorei di Bruno Catalano, creature eteree, affascinanti nel misterioso rapporto tra vuoto e pieno, capaci di instaurare un dialogo con il mondo circostante, fino ad identificarsi con esso. Sono migranti o nomadi, muniti di una valigia alla mano e di una speranza nel cuore alla ricerca di una vita migliore. Uomini per così dire “perforati” e ridotti a pezzi, come li ha resi metaforicamente l’ambiente circostante. Con uno sguardo introspettivo procedono con passo incerto verso una realtà sconosciuta. Statue che sembra abbiano perso ogni organo vitale. In questo vuoto paradossale vi è rinchiuso il tutto, il mondo intero, quello di un’esperienza di chi ha viaggiato ed è cresciuto ulteriormente nell'avvicinarsi e nello scontrarsi con le culture altrui e Bruno Catalano conosce molto bene queste circostanze. Marsiglia è il suo punto di approdo, dopo aver vissuto da marinaio per 30 anni senza una dimora fissa, navigando tra i diversi porti del mondo. Ed è qui che è iniziata la sua carriera: modellando l’argilla prima, la colatura in bronzo poi.

 

Lo scultore riesce a superare la sfida dei suoi predecessori, aggiungendo una quarta dimensione nel suo tentativo surrealista, ben riuscito, di creare il vuoto nello spazio. “Nel mio lavoro, sono alla ricerca del movimento e dell’espressione dei sentimenti; faccio emergere dall'inerzia nuove forme e riesco a levigarle fino a dare loro nuova vita. Proveniente dal Marocco anche io ho viaggiato con valigie piene di ricordi che rappresento cosi spesso nei miei lavori. Non contengono solo immagini ma anche vissuto, i miei desideri: le mie origini in movimento” , afferma Catalano.

 

Le figure sono seguite dall'artista come una sorta di migrazione umana, in diversi luoghi del mondo, laddove sono installate e non a caso questi soggetti scultorei sono trovano dimora in luoghi di transito, piazze, aeroporti, porti di mare.

L’aspetto più affascinante è l’angolazione che stravolge il concetto di “tutto tondo” cui siamo abituati. Se le statue classiche possono essere viste da diversi punti di vista, girandovi intorno, e si lasciano ammirare per la rotondità delle forme, i gruppi scultorei di Bruno Catalano amplificano, come in una dimensione sonora, il concetto di tridimensionalità nella loro mancanza di volume delle forme, offrendoci metaforicamente il mondo materiale che le circonda.

 

Particolarmente emblematica è la monocromaticità del medium utilizzato, come se l’artista volesse lasciare al fruitore più spazio per la sua capacità immaginativa. All’osservatore è data la possibilità di spaziare con la propria immaginazione su quale potrebbe essere il colore della pelle di questi viaggiatori solitari e a che etnia potrebbero appartenere.

L’uomo di Bruno Catalano non appartiene ad una sola città, ma diventa cittadino del mondo. La sua ricerca di identità comporta sempre qualche perdita.