La corporea bellezza dei dettagli

E. Azzena, J. Bovio, S. De Vita, G. Frigoli


Intorno alla tua bocca

INTORNO ALLA TUA BOCCA  (F. Arminio)

Intorno alla tua bocca

a un certo punto arrivano le mie mani

la mia lingua i tuoi capelli e vedo gli occhi

che si aprono in grandi sorrisi luminosi

e l’anima che danza intorno alle narici,

tutto quello che c’è sulla tua faccia andrebbe mostrato

ai poveri di spirito,

le tue labbra da mostrare

a chi esce dai cinema

o dalle chiese

e anche a chi sta a casa

mezzo addormentato sui divani,

la tua faccia in cui compare

qualcosa che solleva la terra verso il cielo

qualcosa che abbassa il cielo

verso la terra.

 

La ragazza con l’orecchino di perla

Jan Vermeer, "La ragazza con l'orecchino di perla", Olio su tela, 1665-1666, Mauritshuis (L’Aia)
Jan Vermeer, "La ragazza con l'orecchino di perla", Olio su tela, 1665-1666, Mauritshuis (L’Aia)

Su uno sfondo scuro, una fanciulla rappresentata con mezzo busto di profilo ruota la testa di tre quarti verso lo spettatore, in favore della luce proveniente da sinistra. Indossa un mantello color rame e una camicia bianca di cui si vede solo il colletto, oltre a un inusuale turbante fatto di una fascia azzurra che avvolge la testa e un drappo giallo annodato che pende dalla nuca fino alle spalle, terminando in frange azzurre. Sebbene possa assomigliare ad una musa o ad una sibilla, l'assenza di alcun attributo iconografico impedisce una reale identificazione.

Il volto della ragazza, intriso di luce, mostra una rara bellezza: labbra rosse, carnose e dischiuse, naso sottile e dritto, occhi grandi e vivi. La luce delle pupille è poi richiamata dall'orecchino con una grossa perla, che brilla sulla penombra del collo. La perla è dipinta utilizzando poche pennellate a goccia, separate l'una dall'altra: è l'occhio umano che ha l'illusione di vederla intera.

 

L'artista catturò con viva immediatezza l'espressione sfuggente, carica di un'innocente languidezza. Il fondo scuro mette in risalto le zone di luce, col colore applicato in pennellate dense e uniformi, poco sfumate, tranne nell'incarnato delicato e in alcune zone dove sono presenti piccoli punti, come nel contorno della bocca. Le sue labbra sono di un dolce rosso e la bocca è socchiusa, come se volesse dirci qualcosa.

 

 


L’urlo

E. Munch, "L’urlo", Olio, tempera e pastello su cartone, Galleria nazionale (Oslo)
E. Munch, "L’urlo", Olio, tempera e pastello su cartone, Galleria nazionale (Oslo)

L’urlo raffigura un sentiero in salita sulla collina di Ekberg sopra la città di Oslo, spesso confuso con un ponte, a causa del parapetto che taglia diagonalmente la composizione; su questo sentiero si sta consumando un urlo lancinante, acuto, che acquisisce un carattere indefinito e universale, elevando la scena a simbolo del dramma collettivo dell'angoscia, del dolore e della paura. Il soggetto urlante è la figura terrorizzata in primo piano che per emettere il grido si comprime la testa con le mani, perdendo ogni forma e diventando preda del suo stesso sentimento, non sembra nemmeno un uomo a causa del suo corpo serpentiforme, quasi senza scheletro, privo di capelli, deforme. Si perde insieme alla sua voce straziata e alla sua forma umana tra le lingue di fuoco del cielo morente, così come morente appare il suo corpo, le sue labbra nere putrescenti, le sue narici dilatate e gli occhi sbarrati, testimoni di un abominio immondo. Ma il vero centro dell'opera è costituito dalla bocca che, aprendosi in un innaturale spasmo, emette un grido che distorce l'intero paesaggio, che in questo modo restituisce una sensazione di disarmonia e squilibrio. Questo sentimento di malessere non è esclusivo né dello sfondo, né dell'animo di Munch, è infatti distintivo del pessimismo fin de siècle diffuso in quel periodo, che cominciò a mettere in dubbio le certezze dell'essere umano, proprio mentre Sigmund Freud indagava gli abissi dell'inconscio. A rimanere dritti sono esclusivamente il parapetto e i due personaggi a sinistra. Queste due figure umane sono sorde sia al grido sia alla catastrofe emozionale che sta angosciando il pittore, non a caso, sono collocate ai margini della composizione, quasi volessero uscire dal quadro. È in questo modo che Munch ci restituisce in modo molto crudo e lucido una metafora della falsità dei rapporti umani. Sulla destra, invece, è collocato il paesaggio, innaturale e poco accogliente, quasi fosse un'appendice dell'inquietudine dell'artista: il mare è una massa nera ed oleosa, mentre il cielo è solcato da lingue di fuoco, con le nuvole che sembrano essere cariche di sangue.

 


Mae West

S. Dalì, "Mae West", Installazione, 1934, Teatro-Museo (Figueres)
S. Dalì, "Mae West", Installazione, 1934, Teatro-Museo (Figueres)

“Si prega di sedersi sulle labbra”, si legge all’ingresso della Sala. 

 

Salvador Dalì per creare questa installazione prese spunto dal viso dell’attrice Mae west. Mae West, nata Mary Jean West (New York, 17 agosto 1893 – Los Angeles, 22 novembre 1980), è stata un'attrice statunitense e, prima ancora, una star dei musical ma anche la prima vera e propria sex symbol del cinema, scandalizzando l'America perbenista e puritana del suo tempo.

 

Il divano Mae West è un'opera d'arte surreale creata da Dalí negli anni '30 e caratterizzata dalla particolare forma sinuosa, come labbra femminili, e l’acceso colore rosso rubino. Icona della sensualità, dai contenuti esotici e scioccanti; Dalí ha voluto realizzare, con quest’opera artistica, una scultura che unisse, al tempo stesso, arte ed arredamento. Dalí rimase affascinato dall'attrice statunitense Mae West, nata nel 1893, conosciuta per le sue abbondanti curve sinuose, le sue labbra formose dal colore rosso rubino ed i suoi comportamenti esuberanti e carichi di freddure ed allusioni.

 

Chi non ricorda la sua osservazione: ”Errare è umano, ma ti fa sentire da dio”? Dalí disse che il suo divano-labbra Mae West, non nasceva per essere usato come divano, ma per diventare l’oggetto simbolo dell’attrice statunitense. Icona del design e tributo alla genialità artistica ed al talento di Dalí, il divano Mae West, ancora oggi, viene riconosciuto in tutto il mondo, dopo quasi novant'anni dalla sua creazione e la realizzazione in diverse edizioni. Il poeta e collezionista inglese Edward James, uno dei patroni del Surrealismo, collaborò con Dalí alla realizzazione del divano Mae West negli anni ’30, ed è stato recentemente riportato sui giornali britannici, che quest’opera commissionata da James, ha la necessità di trovare presto un acquirente affinché possa rimanere in Gran Bretagna. Il Ministro delle Arti John Glen disse: “Questo pezzo iconico è considerato l'unico esempio più importante di mobili surrealisti mai realizzati in Gran Bretagna. Spero davvero che un compratore si faccia avanti per mantenere questo oggetto unico nel Regno Unito”. (Guardian Newspaper 17.11.17)

Il divano Mae West è uno degli oggetti d’arredamento più famosi del XX secolo. Ancora oggi, questa opera iconica di Dalì, continua ad ispirare ed ammaliare chiunque si soffermi ad osservarla; Dalí Universe ha l’onore di esporla regolarmente nelle sue mostre organizzate in tutto il mondo.

 


La bocca della verità

Virgilio Grammatico, "La bocca della verità", ronao della Chiesa di Santa Maria in Cosmedin (Roma dal 1632). Precedentemente collocata presso Piazza Bocca della verità, Marmo pavonazzetto
Virgilio Grammatico, "La bocca della verità", ronao della Chiesa di Santa Maria in Cosmedin (Roma dal 1632). Precedentemente collocata presso Piazza Bocca della verità, Marmo pavonazzetto

Nel periodo della Roma Antica, la Bocca della Verità era un tombino. I tombini, nella Roma Antica, riportavano spesso l'effigie di una divinità fluviale che "inghiotte" l'acqua piovana. Quel che è certo è che il mascherone gode di fama antica e leggendaria; si presume infatti sia questo l'oggetto menzionato nell'XI secolo nei primi Mirabilia Urbis Romae (una guida medievale per pellegrini), dove alla Bocca viene attribuito il potere di pronunciare oracoli.

Nel medioevo si fece strada la leggenda che fu Virgilio Grammatico, un erudito del VI secolo (omonimo del poeta mantovano), che aveva fama di praticare la magia, a costruire la Bocca della Verità, ad uso dei mariti e delle mogli che avessero dubitato della fedeltà del coniuge.

In un'altra leggenda tedesca del XV secolo ritroviamo l'immagine della bocca che "non osa" mordere la mano di una imperatrice romana che, benché avesse effettivamente tradito il suo imperiale consorte, la inganna con un artificio logico. Una storia simile, che circolava nei racconti popolari, parlava di una donna infedele che, condotta dal marito giustamente sospettoso alla Bocca della Verità per essere sottoposta alla prova, riuscì a salvare la sua mano con astuzia. Infatti la donna incriminata chiese all'amante di presentarsi anche lui nel giorno in cui sarebbe stata sottoposta alla prova e che, fingendosi pazzo, la abbracciasse davanti a tutti. L'amante eseguì perfettamente quanto da lei richiesto. Così la donna, al momento di infilare la sua mano nella Bocca, poté giurare tranquillamente di essere stata abbracciata in vita sua solo da suo marito e da quell'uomo che tutti avevano visto. Avendo detto la verità, la donna riuscì a ritirare indenne la sua mano dalla tremenda Bocca, benché fosse colpevole di adulterio.

 

Il nome "Bocca della verità" comparve nel 1485 e la scultura rimase da allora costantemente menzionata tra le curiosità romane, venendo frequentemente riprodotta in disegni e stampe. Da questi ricaviamo che era in origine collocata all'esterno del portico della chiesa; fu spostata all'interno con i restauri voluti da papa Urbano VIII Barberini nel 1631.

 


Scudo con testa di Medusa

Caravaggio, "Scudo con testa di Medusa", Olio su tela, 1598, Galleria degli Uffizi (Firenze)
Caravaggio, "Scudo con testa di Medusa", Olio su tela, 1598, Galleria degli Uffizi (Firenze)

Esistono due versioni di Medusa realizzate dal pittore italiano Caravaggio:

  • la prima è un dipinto a olio su tela, montato su uno scudo convesso di legno di fico (50 x 48 cm), eseguito tra il 1596 e il 1598. L'opera si trova in una collezione privata in Italia. La prima versione è stata sottoposta ad interventi diagnostici che hanno evidenziato vari pentimenti e la presenza di disegni preparatori "a carbone". È detta "Murtola", a seguito del madrigale che Gaspare Murtola compose nel 1606 in onore del dipinto che ebbe grande fama. Secondo alcuni studiosi (Marini, Mahon, Gregori) si tratterebbe dell'autografo originario, mentre la versione degli Uffizi, priva di pentimenti, sarebbe una copia di mano dello stesso artista. Ciò che rende eccezionale questa prima versione è il fatto che conserva la firma di Caravaggio, impressa nel sangue che sgorga dalla testa.
  • la seconda, ispirata dalla prima, è stata commissionata dal cardinal del Monte per Ferdinando I de' Medici. Anche qui si tratta di un dipinto a olio montato su uno scudo convesso di legno di pioppo, e di dimensioni leggermente più grandi rispetto alla prima versione (60 x 55 cm). È conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Questa versione risulta di proprietà dei Medici dal 1598, cioè da quando giunse a Firenze il 25 luglio di quell'anno e fu collocata nella Sala dell'Armeria.

Questo famoso quadro dipinto nel 1598 circa. rappresenta il mito di Medusa, il mostro con il volto di donna e i capelli formati da serpenti che aveva la facoltà di tramutare in pietra chiunque lo guardasse. Perseo riuscì a decapitarla guardandola riflessa in uno scudo di bronzo levigato come uno specchio. Il dipinto di Caravaggio ha la forma insolita di una tavola circolare convessa rivestita di tela. Caravaggio ha sfruttato la forma convessa della tavola per accentuare il carattere drammatico della raffigurazione. Anche se è già stata decapitata, come si vede dagli zampilli di sangue che sgorgano dal collo, Medusa sembra ancora viva, con gli occhi che roteano atterriti e la bocca spalancata. La luce laterale crea un’ombra scura sulla superficie verdastra della tavola, che fa emergere la testa dal fondo, come se fosse una scultura.

 

L’immagine è resa molto realistica da alcuni dettagli, come i denti ben visibili. Il bianco dei denti e degli occhi risalta ancora di più dal contrasto con le zone d’ombra vicine. Le vipere, che Caravaggio ha studiato dal vero emergono dal groviglio indistinto di corpi grazie a sapienti colpi luce.

 


Nell’arte ci vuole occhio

Ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.

(F. Petrarca, “Era ‘l giorno ch’al sol si scoloraro”)

 

E gli occhi mai usano la punteggiatura

perchè quello che vogliono dire

lo dicono tutto d’un fiato.

(Seneca)

 

Se potessi darti una cosa nella vita, mi piacerebbe darti la capacità di vedere te stesso attraverso i miei occhi. Solo allora ti renderesti conto di quanto sei speciale per me.

(F. Kahlo)

 

O come Occhio

L’occhio è il centro, il nucleo, il tema fondamentale di qualunque discorso sull'arte. L’occhio sta all'arte come il centro della Terra sta al pianeta. Materia magmatica e iridescente che determina la struttura del tutto, della quale alcuni sanno qualcosa, molti si chiedono qualcosa, tutti pensano qualcosa, ma che nessuno ha mai esplorato di persona. Come si ascolta una poesia, si guarda un quadro. Vale a dire che in ogni grande dipinto si trova una composizione la cui unità avvolge lo sguardo e lo lega a sé con la forza del sentimento evocato, andando oltre la razionalità dell’attenzione prestata a ogni suo singolo dettaglio. L’immagine si rivela così come “un’atmosfera” immateriale, una musica, che l’occhio può solo ascoltare. La lettera O di occhio sta nel centro dell’alfabeto come la pupilla al centro dell’iride.

 

Nei giardini che nessuno sa

Ti darei gli occhi miei per vedere ciò che non vedi

L'energia, l'allegria per strapparti ancora sorrisi

Dirti sì, sempre sì e riuscire a farti volare

Dove vuoi, dove sai senza più quel peso sul cuore

Nasconderti le nuvole, quell'inverno che ti fa male

Curarti le ferite e poi qualche dente in più per mangiare

E poi vederti ridere e poi vederti correre ancora

Dimentica, c'è chi dimentica distrattamente un fiore una domenica E poi silenzi

E poi silenzi Silenzi

(R. Zero)

 

La Gioconda

L. da Vinci, "La Gioconda", Olio su tavola di pioppo, 1503, Museo del Louvre (Parigi)
L. da Vinci, "La Gioconda", Olio su tavola di pioppo, 1503, Museo del Louvre (Parigi)

Il ritratto mostra una donna seduta a mezza busto, girata a sinistra, ma con il volto pressoché frontale, ruotato verso lo spettatore. Le mani sono in primo piano dolcemente adagiate sul parapetto, mentre sullo sfondo dilaga un vasto paesaggio fluviale con il consueto repertorio leonardesco di picchi rocciosi e speroni. Indossa una pesante veste scollata, secondo la moda dell'epoca, con un ricamo lungo il petto e maniche in tessuto diverso; in testa indossa un velo trasparente che tiene fermi i lunghi capelli sciolti, ricadendo poi sulla spalla dove si trova appoggiato anche un leggero drappo a mo' di sciarpa. Da sempre negli occhi della Gioconda, tra le sue labbra, nei lineamenti del suo viso, tra le sue mani mestamente appoggiate sul grembo e tra i suoi capelli si cerca un codice, un messaggio segreto lasciato per noi dal genio del Rinascimento Italiano ed è da sempre che critici d’arte, storici e appassionati di tutto il mondo cercano di interpretare il mistero che emana dal suo sguardo imperturbabile. L’ultima rivelazione ci viene dal Presidente del Comitato Nazionale per la Valorizzazione dei Beni Storici, Culturali e Ambientali, Silvano Vinceti, che ha reso nota la presenza delle lettere L e V nell'occhio destro della Gioconda, delle lettere, forse ’CE’ o forse una ’B’ all'interno dell’occhio sinistro e del numero 72 in uno degli archi del piccolo ponte situato sullo sfondo destro della stessa. Secondo il Vinceti le due lettere L e V, potrebbero essere proprio le iniziali di Leonardo mentre il numero 72 rappresenterebbe il suo pensiero filosofico, esoterico e religioso. Secondo la studiosa savonese Carla Glori invece, nelle pupille della modella comparirebbero le lettere S e G, che permetterebbero di riconoscere la Gioconda come Bianca Giovanna Sforza, la giovane figlia di Federico il Moro, mentre il paesaggio sullo sfondo del ritratto rappresenterebbe il borgo piacentino di Bobbio e il numero 72 potrebbe riferirsi proprio alla distruzione del Ponte Gobbo di Bobbio (Piacenza) avvenuta nel 1472 a causa dell’onda di piena del Trebbia.


La nascita di Venere

S. Botticelli, "La nascita di Venere", Tempera su tela, 1482-85, Galleria degli Uffizi (Firenze)
S. Botticelli, "La nascita di Venere", Tempera su tela, 1482-85, Galleria degli Uffizi (Firenze)

Afrodite per la mitologia greca, Venere per quella latina, è la dea della bellezza e dell'amore. Omero sostiene che fosse nata da Zeus e da Dione, ma la versione più diffusa è quella di Esiodo secondo la quale sarebbe nata dalle spume del mare, fecondate da Urano nei pressi dell'isola di Cipro. Secondo le leggende il suo sguardo incantava ed emanava quella nota sensuale e affascinante che superava ogni bellezza, e tutto questo nasceva da un suo “difetto”, quel quasi impercettibile strabismo agli occhi. L'origine dell'espressione "strabismo di Venere" deriva da quel piccolo e unico difetto che la rese celebre, non fa parte della classica terminologia clinica, ma è un termine di uso popolare per descrivere una leggera forma di strabismo divergente, non prettamente femminile ma anche maschile.

E’ una forma molto lieve, dove un occhio guarda "più all'esterno" dell'altro, e questo permette di avere uno sguardo trasognato, che secondo i canoni estetici comuni è forte sintomo di fascino in chi lo possiede. Infatti, anche alcune popolazioni aborigene considerano le persone affette da questo strabismo come toccate dagli dei. Anche Botticelli nel suo celebre dipinto “La Nascita di Venere” ha voluto cogliere questo caratteristico difetto che la rende incantevole.

 


The false mirror

R. Magritte, "The false mirror", olio su tela, 1928, The museum of modern art, New York
R. Magritte, "The false mirror", olio su tela, 1928, The museum of modern art, New York

Il quadro rappresenta semplicemente un occhio con un iride che rappresenta un cielo con poche nuvole. La particolarità di questo dipinto è che non esiste una sola interpretazione, né quella giusta o quella sbagliata.

Ogni osservatore è libero di interpretare, come meglio crede, ciò che vede. Il cielo che si vede potrebbe essere un limite all'ambizione umana, un limite oltre il quale non si può andare; oppure potrebbe rappresentare il nulla per chi cerca di guardare davanti a sé e non trova nulla di interessante. Ma il titolo, “Lo specchio falso”, fa pensare anche al modo di dire secondo cui “gli occhi sono lo specchio dell'anima”.

 

Il fatto di considerare falso questo specchio può far pensare che quell'occhio rappresenti un qualcosa di non vero, un modo per dire che quella persona non è come appare. Un'altra interpretazione potrebbe essere quella di un occhio di una persona con una mente lucida e un futuro chiaro, proprio come sta a rappresentare il cielo sereno. Qualsiasi considerazione venga fatta, resta sempre il fatto che dinanzi a un dipinto surrealista come questo ognuno è libero di dare la propria interpretazione, a seconda di ciò che quell'immagine ispira in lui.

 


Le ascelle nell’arte

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,

e i due piè de la fiera, ch'eran corti,

tanto allungar quanto accorciavan quelle.

(D. Alighieri, “Commedia”)

Maya Desnuda

F. Goya, "Maya Desnuda", Olio su tela, 1800, Museo del Prado (Madrid)
F. Goya, "Maya Desnuda", Olio su tela, 1800, Museo del Prado (Madrid)

Si tratta di un quadro rivoluzionario: è la prima volta infatti che viene raffigurata una donna nuda protagonista di un’opera senza dover essere necessariamente una dea o un personaggio mitologico. Fino a quel momento, il nudo artistico era giustificabile solo per delle rappresentazioni mitiche, come ad esempio quadri con protagonista Venere o altre donne del mondo dell’epica greca e romana. La donna sta sorridendo, indossa un po’ di trucco ed i suoi capelli cadono leggeri e morbidi sulle sue spalle e sui bianchi cuscini. Il corpo della donna sembra essere leggermente deformato rispetto alla testa, quasi come se quest’ultima fosse più piccola. C’è una fonte di luce esterna, proveniente dall'angolo in basso a sinistra: è proprio questa illuminazione che mette in risalto la figura della donna, facendo scivolare in secondo piano tutto ciò che lo circonda. Goya con grande abilità è riuscito a dosare perfettamente i colori, creando una tonalità dolce e delicata per la pelle della donna, mettendola così in risalto rispetto a tutto il resto della scena. La donna è ritratta in un atteggiamento seduttivo: le mani incrociate dietro alla testa, lo sguardo diretto e provocatorio, creando particolare scandalo soprattutto per la fierezza con cui mostra le ascelle senza vergognarsi. Il contenuto erotico e soprattutto l’atteggiamento provocatorio del soggetto fecero di Goya una figura scomoda nel panorama nazionale ed è solo per via della sua notorietà che l’Inquisizione evitò di procedere contro di lui.

 


La libertà che guida il popolo

E. Delacoix, "La libertà che guida il popolo", olio su tela, 1830, Museo del Louvre (Parigi)
E. Delacoix, "La libertà che guida il popolo", olio su tela, 1830, Museo del Louvre (Parigi)

La donna che si pone come protagonista della scena è Marianne, personificazione della Francia, che in questo caso incarna anche l’allegoria della Libertà. La donna stringe in una mano la bandiera francese mentre nell'altra una baionetta, suggerendo così la sua attiva partecipazione nel conflitto (il quadro fa riferimento a alle battaglie avvenute nel corso delle “tre gloriose giornate” di Parigi del 27, 28 e 29 Luglio 1830, quando fu rovesciato Carlo X, ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, sostituito da Luigi Filippo, il re della monarchia di luglio). Marianne attraversa il campo di battaglia con i piedi nudi ed il seno scoperto, sulla testa indossa invece un berretto frigio, simbolo della repubblica tanto agognata dai rivoluzionari nel 1789. Marianne volge lo sguardo a destra, verso la massa, incoraggiando il popolo a combattere. Alla sua destra un giovane ragazzo impugna una pistola, simbolo della forza e del coraggio dei giovani nella lotta contro il potere spregiudicato della monarchia, mentre alla sua sinistra un uomo con un cilindro, probabilmente un intellettuale, è pronto a difendere la libertà dei cittadini a qualunque costo. In passato, si è ritenuto che quest’uomo non fosse altro che un autoritratto dello stesso Delacroix, ma studi successivi hanno lasciato spazio all’ipotesi che potesse trattarsi del suo amico Félix Guillemardet. L’opera creò scandalo anche per la presenza dell’ascella pelosa di Marianne, simbolo di virilità e forza.

  

I peli sotto le ascelle sono l'ultimo baluardo del femminismo?

Numerose risultano infatti le attrici, modelle e cantanti del mondo dello spettacolo che hanno mostrato in pubblico senza alcuna vergogna le loro ascelle pelose. Tra le tante si ricordano soprattutto Julia Roberts e Sophia Loren che hanno contribuito a fare di ciò un simbolo dell’emancipazione femminile.

 


Forme di erotismo moderno: il feticismo

Una persona sensibile è quella che, avendo i calli, pesta sempre i piedi altrui.

Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole.

 

La parola feticismo ci fa subito venire in mente manette e guanti di cuoio, ma in realtà questo termine indica, in generale, tutti quegli oggetti senza i quali alcune persone non riescono ad eccitarsi e che diventano così indispensabili per la loro vita sessuale.

 

Che cos'è il feticismo?

In origine, il termine feticismo (dal portoghese " feitiço " = “artificiale”, poi “sortilegio”) indica una pratica religiosa che consiste nell'adorare un oggetto di culto, un feticcio, appunto. In sessuologia questo termine si applica alle persone che provano un desiderio sessuale per un oggetto, una parte del corpo o una situazione particolare. In alcuni casi la presenza di questo “oggetto di culto” è necessaria, per non dire essenziale, all'eccitazione e al piacere sessuale. Considerato fino a qualche tempo fa una perversione malsana e da condannare, al giorno d’oggi il feticismo sta entrando nelle abitudini ed è spesso diventata una moda. 

 

Quali sono gli oggetti del feticismo?

Tutti! Il principio è proprio questo, tutto può diventare fonte di attrazione, culto e eccitazione.

Gli oggetti feticisti più diffusi sono:

  • le stoffe e i materiali come il cuoio, il lattice o il pizzo, ma anche alcuni capi di abbigliamento (gonne, calze...) o di biancheria intima;
  • le parti del corpo (seno, glutei, piedi, gambe...);
  • alcune caratteristiche fisiche (colore dei capelli, pettinatura, occhiali...).

Nell'insorgenza del feticismo, sarebbero implicati, quindi, l'ansia o un precoce trauma emotivo che interferiscono con il normale sviluppo psicosessuale. Il normale modello di eccitamento viene sostituito da un altro modello, talvolta attraverso una precoce esposizione a esperienze sessuali estremamente pregnanti, che rinforzano l'esperienza di piacere del soggetto. La modalità di eccitazione sessuale spesso acquisisce oggetti simbolici e condizionanti (ad esempio, un feticcio rappresenta l'oggetto dell'eccitazione sessuale, ma esso può essere scelto poiché è stato associato, in modo casuale, alla curiosità, al desiderio e all'eccitamento).

 

Il feticismo del piede, o anche podofilia, è un aspetto della sessualità umana, e più specificamente del feticismo, che consiste nell'intenso desiderio sessuale (prevalente o esclusivo) rivolto verso i piedi. Questo tipo di parafilia è popolare sia nel mondo eterosessuale che in quello omosessuale ed è la forma più comune di feticismo sessuale legato a una parte del corpo umano. Talvolta questo gusto sessuale si manifesta in persone che esprimono la propria sessualità nella forma della sottomissione. Nella storia infatti la lavanda dei piedi è sempre stata considerata un'umiliazione, nell'antica Roma era infatti compito degli schiavi lavare i piedi dei loro padroni,così come nella storia tra molti popoli i sovrani erano soliti farsi baciare i piedi (loro o dei loro figli) dai propri sudditi in segno di supremazia nei loro confronti, specie se questi ultimi erano minorenni di famiglie molto svantaggiate costretti ad umiliazioni per il pane quotidiano.

 

Ad ogni modo, chi pratica attivamente il feticismo dei piedi, spesso non è necessariamente un soggetto schiavo della persona che riceve tali attenzioni: nonostante il feticismo dei piedi sia spesso accostato al sadomasochismo secondo gli studiosi non esiste una correlazione tra questi due aspetti della sessualità. Non è raro trovare anche soggetti dominanti con un interesse per i piedi, così come non sono rari i casi in cui il feticista rivolge la sua attenzione esclusivamente al piede, concentrando il suo interesse in quest’unica "direzione". Una grande parte dei feticisti del piede ha una considerazione per i piedi identica, quindi aggiuntiva, a quella per le classiche zone erogene.

 

Molte sono le teorie che dibattono se considerare la pratica del feticismo, nelle sue svariate forme, come una deviazione sessuale patologica. Tuttavia, quasi tutte concludono sostenendo che questa pratica, se non riveste carattere di esclusività nella sfera sessuale - ossia senza la quale il soggetto non riesce a trarre piacere o a raggiungere l'orgasmo - rappresenta in molti soggetti un modo per rendere più vivace ed intrigante il rapporto con il partner.

 

Uno spunto di riflessione, a cavallo tra scienza e letteratura, su una parte del nostro corpo che troppo spesso diamo per scontata. I nostri piedi, così bistrattati, così dimenticati. Addirittura spesso si ironizza su chi pensa senza rigore o serietà usando l’espressione “ragionare con i piedi”. Forse, invece, i nostri piedi meritano un momento di riflessione dedicato solo a loro. Per ridare loro la giusta dignità, è importante ricordare le splendide parole di uno degli scrittori italiani più acclamati degli ultimi vent'anni: Erri De Luca. Una personalità unica, camminatore e alpinista, studioso autodidatta di lingue antiche, poeta e giornalista. Con questi versi attraverso i piedi De Luca racconta tutta la vita, nel suo insieme, senza fare dei piedi solo un pretesto; i protagonisti restano loro dal primo all'ultimo verso. Ne deriva un testo essenziale e allo stesso tempo assoluto che alla fine ci induce a guardare con giusta gratitudine ed affetto a questa parte del nostro corpo.